"E 'un peccato che questo sito non abbia il sonoro, perché non esiste nulla che possa essere paragonato all’urlo stridulo di una Kawasaki tre cilindri due tempi. Se Hannibal Lecter fosse stato un odontoiatra, questo è il tipo di rumore che sarebbe scaturito dalla sua professione "!
Le Kawa tre cilindri e due tempi furono prodotte tra il 1969 e il 1976 in una gamma da 250 a 750cc.
Oggi non vengono più costruite moto di questo tipo.
Beh, non potrebbero nemmeno se volessero perché i due tempi sono ora vietati, per motivi di salute pubblica.
Ma le cose sono andate diversamente intorno ai tardi anni Sessanta
In quel tempo andare il più veloce possibile era di gran lunga la cosa più importante. La benzina al piombo era meno cara dell’acqua di rubinetto (e probabilmente più gustosa), per cui era inutile preoccuparsi di cose noiose come il consumo di carburante e le emissioni di gas di scarico.
Quindi la Kawasaki nel tardo 1968 lanciò la Mach III 500.
Il motore era sostanzialmente una copia del vecchio BSA A10 650. Già dal 1966 Big K aveva prodotto un paio di bicilindriche due tempi ad elevate prestazioni, la Samurai 250 e la 350 Avenger.
Grazie all’ammissione a disco rotante, quest'ultima è stata probabilmente veloce almeno quanto la replicata BSA, e con prestazioni non molto lontane dalle più veloci moto dell’epoca.
Ma anche altri produttori giapponesi, principalmente Suzuki e Yamaha, furono rapidi nel proporre bicilindrici due tempi per cui la Kawasaki decise di produrre una tricilindrica.
In linea generale, più cilindri = più potenza, perché aumentando il numero dei cilindri, a parità di velocità lineare dei pistoni, i giri aumentano, diminuiscono le masse alterne e la potenza sale. L’unico vero piccolo problema è che i terzo cilindro è inserito tra altri due e quindi il suo raffreddamento è difficile, soprattutto se ad aria.
La soluzione Kawasaki fu in primo luogo quella di aumentare l’alettatura dei cilindri.
Le Mach III andavano con miscela al 5%(!) e inoltre veniva praticata una iniezione supplementare di olio - contenuto in un serbatoio separato nella coda – sui cuscinetti di banco.
Nelle due tempi i cilindri aspirano la miscela dal carter per cui è facile immaginare quanto ne venisse disperso in ambiente attraverso le tre espansioni.
Ed è per questo che le Kawa triple vengono ricordate avvolte in una nuvola di fumo bianco.
L’urlo stridulo era dovuto in parte alla fasatura del manovellismo a 120° e parte alle tolleranze relativamente ampie lasciate tra cilindri e pistoni per evitare i grippaggi.
I giochi eran tali che sul segmento di tenuta inferiore di ogni pistone veniva montata una molla espanditrice
I triple stradali resettarono tutti i paramentri di valutazione per le moto sportive, non c’era niente sul mercato capace di star loro alla pari.
Con una sessantina di cavalli e una ripresa incredibile divennero ben presto le Grand Prix dei semafori.
Essi rivelarono però una fatale attrazione per i guard rail, complici una ciclistica quantomeno approssimativa e dei freni assolutamente insufficienti su un mostro praticamente privo di freno motore, facendo la fortuna di molti ortopedici e di qualche impresario di pompe funebri.
Allora i caschi non erano obbligatori ed era tanto “trendy” smanettare con i ray-ban a goccia sul naso e il capello lungo e cotonato al vento, compreso il sottoscritto che, grato, benedice la sua buona sorte.
Nell’inverno del 1969 la Casa madre annunciò la nascita del modello H1R, versione da corsa del modello stradale.
Le H1R andavano bene, erano robuste e facili da mettere a punto.
I guai cominciarono con il kit di potenziamento H1RA, disponibile dal 1971, comprendente nuovi cilindri e pistoni, nuove testate, nuovi tubi di scarico e l’accensione elettronica in luogo di quella a puntine.
Si guadagnarono circa 5 cavalli ma l’arco di potenza diminuì drasticamente – in pratica solo i 2000 giri compresi tra gli ottomila e i diecimila.
Il motore diventò più fragile e la messa a punto più difficoltosa.
Sotto gli ottomila la moto era “vuota”, gli 82 cavalli arrivavano di botto torcendo il telaio e mettendo in crisi i pneumatici.
Oltretutto il motore era sistemato piuttosto in alto, bisognava imbarcare tanta benzina – la moto consumava quanto una portaerei -, nella coda c’era il serbatoio supplementare dell’olio e quindi il baricentro , a pieno carico, veniva a trovarsi ben al di sopra dell’asse delle ruote. Non solo, bisognava anche vincere l’effetto giroscopico del gigantesco tamburo anteriore da 250 mm. Si doveva avere un gran manico e un tappeto di pelo sullo stomaco per guidarla. In ogni caso con piloti come Jack Findlay, Dave Simmonds, Christian Leon, Michael Rougerie, Ginger Malloy ( che curava personalmente la messa a punto e fu cronometrato a 276 Km/h - 13000 giri/min- al TT di Barthurst – Australia),si piazzarono sempre con onore pur non riuscendo a imporsi sulle fenomenali MV Agusta.
I triple stradali resettarono tutti i paramentri di valutazione per le moto sportive, non c’era niente sul mercato capace di star loro alla pari.
Con una sessantina di cavalli e una ripresa incredibile divennero ben presto le Grand Prix dei semafori.
Essi rivelarono però una fatale attrazione per i guard rail, complici una ciclistica quantomeno approssimativa e dei freni assolutamente insufficienti su un mostro praticamente privo di freno motore, facendo la fortuna di molti ortopedici e di qualche impresario di pompe funebri.
Allora i caschi non erano obbligatori ed era tanto “trendy” smanettare con i ray-ban a goccia sul naso e il capello lungo e cotonato al vento, compreso il sottoscritto che, grato, benedice la sua buona sorte.
Nell’inverno del 1969 la Casa madre annunciò la nascita del modello H1R, versione da corsa del modello stradale.
Le H1R andavano bene, erano robuste e facili da mettere a punto.
I guai cominciarono con il kit di potenziamento H1RA, disponibile dal 1971, comprendente nuovi cilindri e pistoni, nuove testate, nuovi tubi di scarico e l’accensione elettronica in luogo di quella a puntine.
Si guadagnarono circa 5 cavalli ma l’arco di potenza diminuì drasticamente – in pratica solo i 2000 giri compresi tra gli ottomila e i diecimila.
Il motore diventò più fragile e la messa a punto più difficoltosa.
Sotto gli ottomila la moto era “vuota”, gli 82 cavalli arrivavano di botto torcendo il telaio e mettendo in crisi i pneumatici.
Oltretutto il motore era sistemato piuttosto in alto, bisognava imbarcare tanta benzina – la moto consumava quanto una portaerei -, nella coda c’era il serbatoio supplementare dell’olio e quindi il baricentro , a pieno carico, veniva a trovarsi ben al di sopra dell’asse delle ruote. Non solo, bisognava anche vincere l’effetto giroscopico del gigantesco tamburo anteriore da 250 mm. Si doveva avere un gran manico e un tappeto di pelo sullo stomaco per guidarla. In ogni caso con piloti come Jack Findlay, Dave Simmonds, Christian Leon, Michael Rougerie, Ginger Malloy ( che curava personalmente la messa a punto e fu cronometrato a 276 Km/h - 13000 giri/min- al TT di Barthurst – Australia),si piazzarono sempre con onore pur non riuscendo a imporsi sulle fenomenali MV Agusta.
Caratteristiche tecniche ( riferite alla H1R di Ginger Malloy )
Motore: Tre cilindri due tempi frontemarcia, raffreddamento a aria, manovelle a 120°, lubrificazione separata dell'albero motore, 498 cc (60x58.8), rapporto di compressione 7,5:1.
Potenza: 82 CV a 9500 giri/min.
Carburazione: 3 Mikuni Vm35SC diffusori da 35 mm.
Accensione: Krober CDI
Cambio: 5 marce
Frizione: Multidisco a secco
Telaio: A doppia culla continua in acciaio ispirata al mitico Norton Featherbed dei fratelli McCandless.
Sospensioni: Forcella telescopica Kawasaki da 35 mm. anteriore, Koni a doppia regolazione al posteriore.
Peso: 135 Kg a secco
Freni: Dischi Honda da 260 mm in acciaio all'anteriore, tamburo Kawasaki da 230 mm a due ganasce flottanti al posteriore.
Pneumatici: anteriore 110/80-18 su cerchio Borrani VM2- posteriore 130/70-18 su cerchio Borrani VM3.
Velocità: 276 Km/h