La Morini 3 ½ è stata per una generazione l’alternativa italiana alle plurifrazionate giapponesi.
Certo, di queste non aveva l’aspetto levigato, quell’aria altera da gran signora che avevano le Honda Four o la cattiveria dichiarata delle Kawa tre cilindri, non aveva nemmeno la possanza di una Guzzi o di una Laverda ma quel “3 ½” a rilievo sui fianchetti, specie se affiancato da uno “Sport” è rimasto ben impresso a chi l’ha posseduta o a chi, e sono stati in molti, ne ha potuto annusare soltanto i gas di scarico.
Andava un gran bene la 3 ½, progettata da un tecnico di valore come Franco Lambertini – proveniente dalla Ferrari – e voluto nel 1970 da Gabriella Morini come anima del marchio dopo la morte del Cavalier Alfonso nel 1968, aveva tanti pregi e pochissimi difetti.
Essenziale, questo è l’aggettivo che viene in mente guardandola.
Poche cromature, niente fronzoli … giusto l'indispensabile.
Un telaio semplice ma valido, un comparto sospensioni all’altezza, forcella Marzocchi davanti ( anche se qualche volta sono state montate le ugualmente valide Paioli ) e ammortizzatori sempre Marzocchi dietro con molle cromate.
All’anteriore c’era un potente freno a tamburo a doppia camma da 200 mm il cui unico difetto era forse la modulabilità e al posteriore un tamburo a camma singola da 160 mm.
In seguito venne montato un disco singolo
Il vero punto di forza era il motore, un “V Twin” longitudinale con angolo di 72° che vantava soluzioni assolutamente innovative come il cambio a 6 marce, la frizione a secco a 5 dischi come una vera racer, albero a cammes nel basamento tra la V dei cilindri e distribuzione comandata da cinghia dentata ( prima moto al mondo a montarla di serie ), teste completamente piatte con camere di scoppio ricavate nel cielo dei pistoni – tecnologia mutuata dalle auto da corsa – accensione completamente elettronica. I condotti di aspirazione e scarico ad alta turbolenza erano stati progettati secondo il sistema “Heron”. Un paio di Dell’Orto VHB da 25 mm protetti contro gli allagamenti da carburante da un rubinetto elettrico comandato dalla chiave di accensione completavano l’opera.
Una coppia di Lafranconi con il loro suono cupo creavano una degna colonna sonora.
I due cilindri erano disassati di 50 mm per migliorare il raffreddamento di quello posteriore.
Lambertini aveva progettato il motore pensandolo modulare ovvero per essere monocilindrico, eliminando il cilindro posteriore, nelle cilindrate 125 e 250 cc e bicilindrico nelle cilindrate da 350 e 500 cc.
Le prime serie presentarono problemi al cambio e di lubrificazione alle teste, inoltre alcuni pistoni risultarono un po’ rumorosi, ma questi peccati di gioventù vennero risolti ben presto e in maniera definitiva.
La potenza era di 35 Cv, il regime di sfarfallamento era di 9200 giri/min e la coppia massima di 3.28 Kgm a 5900 giri/min.
Queste caratteristiche rendevano il motore brillante e ben disposto a girare in alto – unità bicilindriche più blasonate come Guzzi e Laverda giravano 2000 giri più in basso e le quattro cilindri prendevano in genere solo 1000 giri in più avendo per contro una erogazione appuntita a tutto svantaggio della facilità e del piacere di guida.
La ripresa pronta e la frizione a secco favorivano le partenze a razzo, se ne accorsero ben presto i possessori di moto giapponesi lasciati con un palmo di naso ai semafori, infilzati come tordi in staccata e lasciati indietro nel misto a cercare di domare le loro ciclistiche.
In pratica l’unico modo di battere una 3 ½ con una giapponese dell’epoca era confrontarsi su di un rettilineo infinitamente lungo e forse anche in quel caso sarebbe stato da vedere dato che la Morini dichiarava, secondo me molto ottimisticamente. una velocità massima di 175 Km/h
Realisticamente, spalmati sul serbatoio, si sfioravano i 160 all’ora.
Non male per una 350 di 35 anni orsono.
In ogni caso le piccole bugie sulle prestazioni erano prassi comune tra i costruttori, anche Soichiro Honda dichiarava 200 km/h per la sua 750 Four che poi prendeva regolarmente distacchi abissali dalle V7 Sport che i duecento li facevano davvero.
Le 3 ½ si prestarono ben presto a modifiche e personalizzazioni che andavano dall’immancabile due in uno alle irrinunciabili pedane arretrate. La posizione di queste ultime, specie sulla Sport, erano troppo avanzate e rendevano la posizione di guida innaturale.
Lo stesso sottoscritto era innamorato perso di una 3 ½ kittata da Valentini esposta in vendita da un Concessionario della zona, più o meno come questa della foto sopra pescata sul web, accreditata di 48 Cv alla ruota e cronometrata a 200 km/h.
Anche la pubblicità della Morini, con le prosperose bellone dai boccoli cotonati non faceva altro che far crescere la libido di un ventenne con gli ormoni in subbuglio che quasi non riusciva decidere se fosse preferibile la moto o le modelle.
Decisi per le modelle lasciando, senza troppi rimpianti, la 3 ½ di Valentini nel cassetto dei desideri irrealizzati.
Certo, di queste non aveva l’aspetto levigato, quell’aria altera da gran signora che avevano le Honda Four o la cattiveria dichiarata delle Kawa tre cilindri, non aveva nemmeno la possanza di una Guzzi o di una Laverda ma quel “3 ½” a rilievo sui fianchetti, specie se affiancato da uno “Sport” è rimasto ben impresso a chi l’ha posseduta o a chi, e sono stati in molti, ne ha potuto annusare soltanto i gas di scarico.
Andava un gran bene la 3 ½, progettata da un tecnico di valore come Franco Lambertini – proveniente dalla Ferrari – e voluto nel 1970 da Gabriella Morini come anima del marchio dopo la morte del Cavalier Alfonso nel 1968, aveva tanti pregi e pochissimi difetti.
Essenziale, questo è l’aggettivo che viene in mente guardandola.
Poche cromature, niente fronzoli … giusto l'indispensabile.
Un telaio semplice ma valido, un comparto sospensioni all’altezza, forcella Marzocchi davanti ( anche se qualche volta sono state montate le ugualmente valide Paioli ) e ammortizzatori sempre Marzocchi dietro con molle cromate.
All’anteriore c’era un potente freno a tamburo a doppia camma da 200 mm il cui unico difetto era forse la modulabilità e al posteriore un tamburo a camma singola da 160 mm.
In seguito venne montato un disco singolo
Il vero punto di forza era il motore, un “V Twin” longitudinale con angolo di 72° che vantava soluzioni assolutamente innovative come il cambio a 6 marce, la frizione a secco a 5 dischi come una vera racer, albero a cammes nel basamento tra la V dei cilindri e distribuzione comandata da cinghia dentata ( prima moto al mondo a montarla di serie ), teste completamente piatte con camere di scoppio ricavate nel cielo dei pistoni – tecnologia mutuata dalle auto da corsa – accensione completamente elettronica. I condotti di aspirazione e scarico ad alta turbolenza erano stati progettati secondo il sistema “Heron”. Un paio di Dell’Orto VHB da 25 mm protetti contro gli allagamenti da carburante da un rubinetto elettrico comandato dalla chiave di accensione completavano l’opera.
Una coppia di Lafranconi con il loro suono cupo creavano una degna colonna sonora.
I due cilindri erano disassati di 50 mm per migliorare il raffreddamento di quello posteriore.
Lambertini aveva progettato il motore pensandolo modulare ovvero per essere monocilindrico, eliminando il cilindro posteriore, nelle cilindrate 125 e 250 cc e bicilindrico nelle cilindrate da 350 e 500 cc.
Le prime serie presentarono problemi al cambio e di lubrificazione alle teste, inoltre alcuni pistoni risultarono un po’ rumorosi, ma questi peccati di gioventù vennero risolti ben presto e in maniera definitiva.
La potenza era di 35 Cv, il regime di sfarfallamento era di 9200 giri/min e la coppia massima di 3.28 Kgm a 5900 giri/min.
Queste caratteristiche rendevano il motore brillante e ben disposto a girare in alto – unità bicilindriche più blasonate come Guzzi e Laverda giravano 2000 giri più in basso e le quattro cilindri prendevano in genere solo 1000 giri in più avendo per contro una erogazione appuntita a tutto svantaggio della facilità e del piacere di guida.
La ripresa pronta e la frizione a secco favorivano le partenze a razzo, se ne accorsero ben presto i possessori di moto giapponesi lasciati con un palmo di naso ai semafori, infilzati come tordi in staccata e lasciati indietro nel misto a cercare di domare le loro ciclistiche.
In pratica l’unico modo di battere una 3 ½ con una giapponese dell’epoca era confrontarsi su di un rettilineo infinitamente lungo e forse anche in quel caso sarebbe stato da vedere dato che la Morini dichiarava, secondo me molto ottimisticamente. una velocità massima di 175 Km/h
Realisticamente, spalmati sul serbatoio, si sfioravano i 160 all’ora.
Non male per una 350 di 35 anni orsono.
In ogni caso le piccole bugie sulle prestazioni erano prassi comune tra i costruttori, anche Soichiro Honda dichiarava 200 km/h per la sua 750 Four che poi prendeva regolarmente distacchi abissali dalle V7 Sport che i duecento li facevano davvero.
Le 3 ½ si prestarono ben presto a modifiche e personalizzazioni che andavano dall’immancabile due in uno alle irrinunciabili pedane arretrate. La posizione di queste ultime, specie sulla Sport, erano troppo avanzate e rendevano la posizione di guida innaturale.
Lo stesso sottoscritto era innamorato perso di una 3 ½ kittata da Valentini esposta in vendita da un Concessionario della zona, più o meno come questa della foto sopra pescata sul web, accreditata di 48 Cv alla ruota e cronometrata a 200 km/h.
Anche la pubblicità della Morini, con le prosperose bellone dai boccoli cotonati non faceva altro che far crescere la libido di un ventenne con gli ormoni in subbuglio che quasi non riusciva decidere se fosse preferibile la moto o le modelle.
Decisi per le modelle lasciando, senza troppi rimpianti, la 3 ½ di Valentini nel cassetto dei desideri irrealizzati.