Alla fine l’ho comprata.
Per qualche migliaio di euro mi sono portato a casa un pezzo di storia del motociclismo.
Era da un po’ che ci pensavo ma una volta per un motivo una volta per un altro avevo sempre procastinato l’acquisto.
Forse perchè un po’ troppo moderna per i miei gusti classici.
Semrava stonasse a fianco della Guzzi e della BMW.
In fondo la VFR750 è di solo quattro anni più giovane delle altre inquiline del mio garage ma le differenze tecniche sono abissali.
Telai in tubi contro telaio deltabox in alluminio, bicilindrici raffreddati ad aria contro quattro cilindri a V di 90° raffreddato a liquido, distribuzione aste e bilancieri a 2 valvole per cilindro contro 4 valvole comandate da cascata di ingranaggi, accensione a puntine platinate contro accensione elettronica, gommatura 120/90x18 contro 170/60x17, i settanta cavalli (all'origine) della Guzzi contro i cento della Honda (con scarico e tarature di serie), 200 km/h contro 250 km/h, essenzialità contro opulenza.
Eppure a dispetto dell’aspetto da matrona e della sua eleganza senza tempo la VFR750 è nata in pista e per la pista e ha impresso nel suo DNA un lungo capitolo di sport e di vittorie.
Sotto le forme morbide e abbondanti è ciclisticamente e meccanicamente superdotata con componenti e soluzioni tecniche derivate direttamente dalle Superbike dell’epoca e ancora attuali.
Dapprima fu la VFR 750 di Bubba Shobert (campione del mondo AMA Superbike 1987) una vera derivata di serie, bellissima nella livrea bianco/rosso/blu della HRC ma con l’origine stradale tradita dal guscio di vetroresina messo a coprire la porzione posteriore della sella biposto e i tappi sulla carena a coprire le ferite dovute all'asportazione dei fari.
Nel 1990 Fred Merkel si sfracella con la sua RC30, dando l’addio alla carriera agonistica, ma la Honda conquista anche quell’anno il titolo.
La mia RC36 è parente strettissima di quelle moto, stesso telaio, stesse quote ciclistiche, stesso forcellone monobraccio, stesso motore anche se con manovellismo a 360° contro quello a 180° delle RC da pista. Quando la immise sul mercato, nel 1990, la Honda limitò la potenza a 95 cavalli rispetto ai 105 della prima serie e questo stemperò un po’ l’allungo dopo l’entrata in coppia posta a circa 7000 giri ma è bastato un corto scaricozzo fuori ordinanza (con tanto di coreografiche fiammate) e una mattinata passata al banco di flussaggio per ritrovare i cavalli perduti e la pienezza delle prestazioni.
La RC36 accetta di essere guidata come un bicilindrico senza l'uso esasperato del cambio, scende in piega facilmente con la semplice pressione sulle pedane e esce dalle curve svelta e senza scomporsi, è compagna docile di passeggiate con zavorrina a bordo ( che oltretutto gode di un ottimo confort) ma quando il gioco si fa duro emerge l’animale da pista e con l’accompagnamento dell’ululato dello scarico e il soffio rauco delle aspirazioni ci si trova in un baleno con la lancetta del tachimetro a solleticare i 250 km/h.