CHI SONO

Sono malato di moto.

Mi piacciono tutte ma preferisco quelle che hanno sacrificato qualche orpello originale o la conformità alle norme del codice della strada sull'altare dell'edonismo per l'esaltazione dell'ego del loro possessore. Moto mutilate? Non proprio.
Preferisco immaginarle, che Dio mi perdoni l'eresia, come le sculture che Michelangelo immaginava intrappolate nei blocchi di marmo. Moto liberate da quanto imposto dai diktat degli studi di marketing, dal politically correct, dalle normative ambientali, dalle regole imposte dai burocrati. Moto scostumate, irriverenti, esibizioniste, visionarie ma vere vive e pulsanti.
E senza fare distinzioni tra custom, bobber, streetfighter, racer replica ecc. ho voluto creare uno spazio virtuale in cui incontrarsi, confrontarsi, scambiarsi opinioni e sul quale proporre le proprie creazioni. Quache paludato bacchettone resterà inorridito ma ritengo che ogni prodotto dell'ingegno umano sia Cultura. Inviatemi le foto delle vostre creature e un commento sull'iter mentale e operativo che ha condotto all'evento.
Da me l'ingresso è libero.

Qualcosa su cafè sport



venerdì 21 dicembre 2012

PARILLA 175 MSDS



Continua la mia ricerca di materiali per scrivere un “ritratto in bianco e nero” dedicato a Franco Mancini.
Qualcosa in verità sto trovando grazie anche a Williams Alonzi, direttore sportivo del motoclub dedicato appunto a Franco Mancini, e all’amico Roberto Cianfarani.
In attesa di reperire ancora qualcosa voglio scrivere qualche riga sulla Parilla di cui Mancini fu pilota ufficiale e più in particolare della MSDS (Moto Sportive Derivate dalla serie).
Oltretutto sono il fortunato possessore di una 175 Sport del 1953, tuttora in fase di restauro, di cui sembra che il pilota sia stato primo proprietario.


Fino al 1953 la produzione della Parilla, fondata da Giovanni Parrilla, si era limitata alla produzione di modelli utilitaristici a due tempi.
C’erano stati, è vero, modelli sportivi a quattro tempi  limitati però alle competizioni: la 250 monoalbero a coppie coniche del 1946 rivelatasi però poco competitiva, la 250 Super sport  monoalbero del 1947 con potenza di 17 CV  e nel 1948 la 250 Speciale Corsa 250 Bialbero da 20 Cv e 145 km/h.
Il salto di qualità da una produzione nettamente utilitaristica caratterizzata dai piccoli 2T a una tecnologicamente più evoluta avvenne con il propulsore da 175 cc nato dalla matita di William Soncini.
Sembra che alla definizione del progetto abbia fatto in tempo a collaborare Alfredo Bianchi prima di passare all’Aermacchi.
Il risultato fu un monocilindrico caratterizzato dalla inusuale distribuzione a camma rialzata.
Questo propulsore con il passare del tempo si identificò con il marchio stesso.
Si tratta di un monocilindrico verticale con misure quasi “quadre” (59.8x62 mm) dotato di distribuzione azionata  una camma comandata da una catena – in qualche edizione sportiva speciale fu adottata la cascata di ingranaggi – posta in posizione rialzata  che mediante corte astine comandava i classici bilancieri.
Essendo la camma unica sia per l’aspirazione che per lo scarico il diagramma di distribuzione risultava per forza di cose simmetrico.
Tale soluzione, restata peraltro unica nel panorama motociclistico, riduce  l’ingombro in altezza del motore e evita le difficoltà di raffreddamento della testa tipiche della distribuzione monoalbero in testa conservando tuttavia la facilità di regolazione del sistema ad aste e bilancieri.
La ridotta massa delle astine in alluminio ( 7 mm di diametro per 70 mm di lunghezza) con estremità riportata in acciaio fucinato minimizza l’inerzia delle stesse permettendo regimi di rotazione piuttosto elevati per un monocilindrico.



Dal modello di serie venne estrapolato, sotto la supervisione di Cesare Bossaglia, il famoso “Bassotto”; la Sport Competizione, prima versione delle MSDS accreditata della velocità di 135 Km/h.
La moto differiva dal modello di serie per il rapporto di compressione, il diametro del diffusore del carburatore e per il telaio monoculla aperto che nella parte posteriore era costituito da un unico tubo e non da più pezzi assemblati insieme.
Nel 1960 il telaio venne modificato nella parte posteriore e conservò questa configurazione fino alla cessazione dell’attività della casa.


Veloce e robusta la MSDS riuscì a contrastare con successo le Morini e le Bianchi ufficiali e nel 1957 Giuseppe Rottigni vinse il Giro d’Italia nella classe 175  e nel 1958 Vittorio Brambilla conquistò il campionato italiano Juniores.
Le “camma rialzata” ebbero un buon successo di vendita negli USA dove si era trasferito Rottigni che con le sue vittorie nei campionati AMA fu un ottimo promoter per l’azienda.


Aumentando la cilindrata delle 175 fino a 250 cc, venne allestita specificatamente per il mercato americano, un fuoristrada: la 250 Widcat.
Il motore della 250 Wildcat venne montato nel telaio della 175  e impiegato per la velocità.
Con una moto del genere Franco Mancini divenne praticamente imbattibile nelle gare in salita laziali dove spesso risultò più veloce delle 500 .
Mancini utilizzò la Parilla con buon successo anche a Vallelunga dove morì mentre cercava di stabilire il record di velocità sull’ora.


Nel 1964, con una moto simile, Grant  arrivò secondo a Daytona.
Ancora la stessa moto riuscì a prendere punti nel campionato mondiale per merito dell’uruguaiano Marefatan che nel Gran premio d’Argentina arrivò quinto nel 1962 e sesto nel 1963.
Può non sembrare molto ma bisogna tener conto che Parilla era una vera derivata di serie e non una GP travestita da stradale come alcune MV Agusta, Morini e Mondial, moto progettate per le gare e immatricolate nello stretto numero di esemplari necessario per l’omologazione.


sabato 15 dicembre 2012

Kawasaki "SEGONI SPECIAL"




L’incontro con la bellissima e curatissima Segoni Special Kawasaki di Lorenzo Segoni a Vallelunga mi permette di chiacchierare un po’ del suo illustre genitore, Giuliano Segoni, che fu uno dei più brillanti telaisti italiani delle cui geniali creazioni, per qualche oscuro motivo, si sta perdendo la memoria.
 





L’antefatto: la presentazione della Honda CB 750 Four, alla fine degli anni ’60, innescò, per ragioni di prestigio e di immagine, specialmente tra i produttori giapponesi, la corsa al frazionamento dei motori e all’incremento delle potenze.

In risposta alla proposta Honda, nel 1972 la Kawasaki pose in commercio la Z1 900 –quadricilindrica, bialbero in testa con comando a catena, 82 CV, 212 km/h effettivi– che fu la moto più potente e veloce in normale produzione.

Alla crescita esponenziale delle potenze non corrispose un conseguente adeguamento delle ciclistiche; ne risultarono le famose “bare volanti” che, complice la non obbligatorietà dei caschi e l’aleatorietà dei limiti di velocità, mietettero le vite di centinaia di centauri.

La colpa non era però tutta delle motociclette; passare nel giro di pochi anni dalle mono o bicilindriche alle plurifrazionate ci faceva sentire un po’ tutti degli “Agostini”, incoraggiava la rotazione del polso destro facendoci dimenticare che le cavalcature non erano state concepite per essere guidate come moto da corsa.

Se si volevano sfruttare in pista le potenzialità delle meccaniche Jap occorreva che queste fossero inserite in ciclistiche adeguate.

Proprio nel 1972, il giovane ingegnere Giuliano Segoni, fondò a Firenze la Segoni Special, una piccola azienda per la produzione di telai sportivi.

I telai di Segoni, se si esclude la splendida realizzazione monoscocca in duralluminio motorizzata Laverda 750 che da sola meriterebbe una trattazione a parte, erano essenzialmente costituiti da un tubo superiore in alluminio di grosso diametro con il propulsore “appeso”.

  


 La configurazione monotrave, a parte la nota rigidità torsionale del tubo unita alla particolarità del forcellone scatolato, consentiva quote ciclistiche più contenute rispetto ai telai tradizionali con conseguenti ovvi vantaggi in termini di guidabilità e tenuta di strada.



Dopo la prima esperienza nel 1972 alla 200 miglia di Imola con Brettoni alla guida di una special motorizzata Laverda si tentò l’avventura della 24 Ore del Bol D’Or con una macchina sempre motorizzata Laverda affidata alla coppia Nico Cereghini – Giancarlo Daneu che nonostante restasse attardata da accidenti dovuti soprattutto alla alimentazione ( il serbatoio in vetroresina si sfaldava ostruendo i carburatori ) riuscì a terminare la gara.

Dopo quella esperienza le ciclistiche di Segoni cominciarono ad essere apprezzate e richieste non solo dai piloti dell’Endurance ma anche dalla clientela sportiva grazie anche all’appeal delle sovrastrutture disegnate dall’architetto Roberto Segoni, fratello di Giuliano, che sarebbe poi diventato un noto designer nel campo dei trasporti; suo, ad esempio, è il progetto del Jumbo Tram.


Nel 1974 nascono le prime Segoni-Kawasaki 900 che con due esemplari partecipano alla 24 Ore di Le Mans riuscendo a terminare la gara.

Nel 1975, ancora a Le Mans le Segoni-Kawa si piazzano al 10° e 17° posto con Valli-Sorci e Daneu-Stanga mentre nessuno dei team ufficiali italiani riesce a terminare la gara tanto che la stampa specializzata parla di “disfatta italiana” e Motociclismo commenta: “I Segoni sono gente strana, corrono per passione e amano impegnarsi in imprese apparentemente assurde”.

Varie sono state le meccaniche applicate alle ciclistiche di Segoni: Laverda SFC, Honda Four, Suzuki, Gori per le piccole cilindrate (ingegnoso per questa realizzazione il doppio pignone sul fulcro del forcellone per mantenere costante la tensione della catena), MV Agusta – splendida quella realizzata nel 1974 in collaborazione con Arturo Magni – e soprattutto Kawasaki.



Proprio in sella a una Special Kawasaki nera oggi conservata da Lorenzo con ancora i segni dell’incidente, il 26 Settembre del 1978, muore Giuliano Segoni e con tale evento termina l’evoluzione delle ciclistiche dovute alla sua passione.


Oggi i telai di Segoni vengono replicati fedelmente e con competenza da Guido Calonaci.


lunedì 26 novembre 2012

TRIUMPH T150 TRIDENT



La Triumph Trident T150 Postata da Herve
L’altro giorno un mio amico di Facebook, Herve Coudulet, ha pubblicato la foto di una Triumph Trident caferizzata;  tre in uno, sella monoposto, un bel Fontana da 250 a quattro ganasce, semimanubri, strumentazione ridotta al solo contagiri, colore viola.
Ce n’era una proprio così al mio paese, il proprietario era un tal Ferdinando che di mestiere faceva “il pompista”.
Di Triumph da noi non se ne sono mai viste molte, probabilmente per mancanza di un concessionario di marca - se manca l’offerta anche la domanda langue - e così per un bel pezzo la Trident di Ferdinando è restata l’unica tre cilindri in circolazione.
Cominciavano a vedersi in giro delle Honda Four, è vero, ma quelle erano tutte tanto belline educatine  e perfettine che sembravano appena uscite dal gran ballo delle debuttanti: vestitino metallizzato, incedere elegante e voce sussurrata.
Solo più tardi avrebbero incontrato i Bikers rudi e ignoranti che le avrebbero condotte alla perdizione portandole sulla cattiva strada e a volte anche in pista.
La nostra T150 invece era arrivata già ignorante e scafata di suo; un po’ come la collegiale ripetente che ha già praticato il sesso mentre le compagne di classe ne parlano soltanto.
Sottovoce.
La Trident scostumata di Ferdinando urlava. 
Urlava con il vocione rauco che solo le tricilindriche a quattro tempi con il 3 in 1 e lo scarico aperto sanno avere.
Io e qualche amico coetaneo, all’epoca montati su monocilindriche nostrane, a volte ne parliamo con un pizzico di nostalgia ricordando come ci ripromettevamo una volta grandi di possedere una moto come quella.

Triumph Trident T150 1969
Ora siamo “grandi” e anche un po’ di più, probabilmente potremmo permettercela ma sarebbe rendere tangibile un desiderio di ragazzo; meglio lasciarla nel garage dei desideri irrealizzati insieme alla Honda RC30, alla Yamaha FZR 750R, alla Moto Guzzi 750S “Telaio Rosso” e tante altre.
Madonna mia, su… stai diventando noioso e quasi patetico con i tuoi ricordi.
OK, OK, basta così.
Presentata del 1968 - praticamente in contemporanea con la CB 750, la Norton Commando, e la Kawasaki 500; la mitica Moto Guzzi 750 S con il telaio rosso sarebbe arrivata un paio d’anni più tardi – precipitò la precedente produzione motociclistica inglese nella preistoria.
La Trident rappresentava il presente ma le giapponesi, Honda in testa, erano già il futuro e la moto pur con tutti i suoi pregi non si impose sul mercato e rappresentò il canto del cigno della storica factory.
Bert Hopwood e Doug Hele già nei primi anni 60 avvertirono la necessità di sostituire la Bonneville con qualcosa di più performante e proposero l’idea ad Edward Turner, capo carismatico della Triumph, purtroppo vicino al pensionamento che non appoggiò il progetto.
L’idea era di aggiungere un cilindro al motore della Tiger 500 per sfruttare al massimo le linee di produzione esistenti e minimizzare i costi di sviluppo, mantenendo la lubrificazione a carter secco per ridurre l’ingombro in altezza del propulsore, rinuncia alla già sperimentata distribuzione bialbero in testa per lo stesso motivo e manovellismo a 120° per l’ottenimento di prestazioni brillanti. 
Spaccato del motore della Trident
Furono sviluppati vari prototipi con la proverbiale flemma inglese e solo quando arrivò la notizia che Soichiro Honda stava per lanciare sul mercato una settemmezzo pluricilindrica il progetto fu accelerato e la Trident venne presentata al pubblico.
 Triumph Trident prototipo 1965
Lo studio delle sovrastrutture della T150 fu affidato allo Studio Ogle che propose un design avveniristico e filante con il serbatoio di forma squadrata, i parafanghi verniciati e le particolarissime marmitte con i terminali che ricordavano il numero tre dei cilindri.
La moto non piacque.

Il bozzetto definitivo della OGLE Design
 La nipponica CB 750 era molto più vicina ai gusti classici inglesi di quanto non fosse l’inglesissima Trident.
Inoltre, per quanto fosse nettamente superiore in prestazioni pure, in tenuta di strada e qualità telaistiche, la Trident non reggeva il paragone con le giapponesi per affidabilità e facilità d’uso.
Trafilaggi d’olio, frequenti rotture della trasmissione primaria ( la moto conservava il cambio separato ), la mancanza dell’avviamento elettrico, la distribuzione a aste e bilancieri, la difficoltà di carburazione, l’accensione a puntine, i freni a tamburo anziché a disco, la resero commercialmente  perdente nei confronti della concorrenza giapponese.
Nel 1972 la Triumph chiuse i battenti anche se per volontà del governo inglese venne fusa con la Norton e la Villiers e continuò a produrre bicilindriche da 650 cc fino al fallimento nel 1983.
Eppure la Trident andava forte.
La cugina BSA Rocket 3 venne certificata dalla AMA in configurazione stock a una velocità di quasi 211 Km/h sulle 5 miglia.
La “Slippery Sam” vinse cinque gran premi all’isola di Man per cinque anni consecutivi, dal 1971 al 1975.
Slippery Sam
Gene Romero e Don Castro affiancano Gary Nixon nelle gare del Grand National. 
Romero corre per sette anni con le Triumph. 
Sono suoi infatti i migliori piazzamenti della tre cilindri a Daytona (due volte secondo nel '70-'71 con pole record a più di 250km/h di media) ed è per merito suo che la Triumph si aggiudica per l'ultima volta il Grand National nel 1970. 
Prima della definitiva chiusura del Reparto Corse, la Trident si aggiudica il Bol d'Or del 1970 con Smart-Dickie a Montlhery e quello dell'anno successivo (1971) a Le Mans grazie a Tait-Pickrell.
Con la Trident gareggiano anche i nostri Walter Villa e Gianfranco Bonera e perfino Agostini ne usa una per gli allenamenti per le gare di durata.
Questo solo per citare i più famosi ma l’elenco è lungo.

La Triumph T140 di Giacomo Agostini

Giacomo Agostini e la Triumph Trident


Walter Villa su Triumph Trident
La triumph Trident di Gianfranco Bonera
Nixon, Castro e Romero su T150 Trident